Nel luglio 2010 ho partecipato a ritroso alla Marcia della Morte, intrapresa nel 1995 dagli uomini di Sbrebrenica per sfuggire alle forze serbo bosniache.
La marcia, che si chiama Marcia della morte – La strada verso la libertà è stata organizzata la prima volta dieci anni dopo il genocidio.
Per molti che sono sopravvissuti alle esecuzioni del 1995, camminare in direzione contraria, tornare nei luoghi dai quali erano scappati e nei quali i propri familiari e amici hanno perso la vita, ha un effetto catartico, aiuta a rilasciare parte del dolore e dei ricordi strazianti accumulati.
Insieme ad un gruppo di amici abbiamo intrapreso questo viaggio per accompagnare Asmir Suljic, che all’epoca dei fatti era solo un bambino di cinque anni dai tratti dolci e gentili. Non poteva saperlo allora ma quell’aspetto biondo e delicato fu il suo lasciapassare per la salvezza. Prima di fuggire da Sbrebrenica, la madre ebbe l’intuizione di travestirlo in abiti femminili. Sapeva bene che i serbi a ogni posto di blocco erano lì per rastrellare uomini e ragazzi di ogni età. Sapeva bene che i maschi del suo popolo, nonostante le rassicurazioni di Mladic, erano destinati a finire giustiziati. Il padre di Asmir riuscì a fuggire per i boschi appena in tempo, ma il nonno non ebbe la stessa fortuna. Fece appena in tempo a regalare al nipotino una coperta: Asmir la conserva ancora. Assieme al ricordo, alla fame, al terrore. Alla gioia di ritrovare suo padre vivo alla fine del percorso. Al dolore di sapere che molti parenti non c’erano più, e una parte di sé si era persa per sempre lungo quei boschi.
Accompagnammo Asmir a dare sepoltura ai suoi morti, perché come migliaia di altri corpi, ogni anno vengono riesumati dalle fosse comuni e le osse sottoposte a DNA per poi essere riconsegnate alla famglie e interrate attraverso un rito funebre collettivo che si svolge, tutti gli anni, a Sbrebrenica il giorno del genocidio.